le testimonianze sulla trudarmee

Viktor Heidelbach
ci descrive come ha vissuto nella Trudarmee

Il 15 novembre abbiamo ricevuto, mio padre ed io, l’ordine. Due giorni dopo siamo stati portati con delle slitte ad Urisk dove ci tolsero le carta d'identità.

Poi il viaggio continuò fino a Kustanai, dove il giorno seguente venimmo caricati in un treno merci. Il 27 novembre del ‘42, siamo arrivati a Karaganda.

Anche l'ultimo di noi si rese conto di quello che ci aspettava: il lavoro forzato nelle locali miniere di carbone.

Gli abitanti del villaggio Tichonowka sono stati sloggiati senza mezzi termini dalle loro case, perché queste dovevano essere modificate e date a noi come campi di accoglienza.

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letto a castello

Le circa 50 case nel campo si trovavano lungo due strade. Filo spinato, torri di guardia e custodia militare attorniavano il villaggio.

Ogni casa aveva quattro ingressi. Le camere furono dotate di molti letti a castello a tre piani. I letti a castello erano fatti di tavole di legno senza neanche un sacco di paglia, senza coperta e senza cuscino. Ci eravamo stesi con gli indumenti che avevamo addosso durante il giorno. Di più non ci era stato concesso.

Il campo ospitava circa 1.000 uomini. Dopo l'arrivo siamo stati portati nel bagno dove ci venne rasata la testa. Probabilmente non ci dovevamo distinguere dai detenuti.

Ci diedero vestiti da lavoro, una giacca, un pantalone e scarpe di legno e il giorno dopo tutti nella miniera.

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In breve ci mostrarono il lavoro e poi toccava a noi di adempiere la consegna quotidiana. Inizialmente era terribilmente difficile. Nessuno di noi conosceva il lavoro sotto terra. Spesso arrivammo fino allo sfinimento totale. Solo gradualmente la maggior parte di noi si era abituata al lavoro pesante; ma molti non riuscirono, si ammalarono e poi morirono.

Oltre al lavoro duro nel pozzo si aggiungevano i sette chilometri dalla miniera al campo. Ciò significava che dovevamo fare la strada a piedi due volte al giorno, prima e dopo il turno di lavoro di 10 ore.

La giornata di lavoro durava allora 14 ore, il tragitto di andata e di ritorno più il lavoro nel pozzo. Era una terribile faticaccia e questo ogni giorno, senza mai un giorno di riposo.

Solo nel mese di ottobre del ’43 divenne più facile: quando il nuovo campo a 700 metri dalla miniera era completato.

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Si mangiava due volte al giorno: al mattino e in tarda serata: pasta, zuppa spesso con pomodori verdi e talvolta con un po' di pesce: questi erano i nostri pasti giornalieri.

La mattina presto ci davano anche la razione giornaliera di pane che in gran parte mangiammo subito. Una volta volevo conservare un pezzo di pane per la sera. Ma quando sono tornato dal pozzo me lo avevano rubato.

Certo i nostri pasti nell'industria mineraria erano meglio di quelli degli altri campi di lavoro. Ma comunque non riuscivamo mai a saziarci. Spesso ero affamato. Immediatamente dopo aver mangiato, avvertivo una sensazione di sazietà, ma questo durava molto poco.

Avevo solo 16 anni. Ma nessuno si preoccupava di me. Dovevo lottare per la mia sopravvivenza, fare l’uomo, come gli adulti. Non esisteva alcuna indulgenza.

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All'inizio c’era papà lì. Eravamo nello stesso campo e nella stessa miniera. Ma papà nella sfortuna aveva un po' di fortuna. Dal momento che nella sua gioventù cadde da cavallo ha avuto un’ernia. Nonostante due operazioni non potevano aiutarlo.

 Adesso il pesante lavoro in miniera peggiorava molto la sua sofferenza. Il medico lo esaminò nel campo e decise che non era in grado di lavorare. Nel ‘43 papà lasciò il campo e ritornò da mia madre a Nekrassowka. Era buono per lui. Io invece avevo perso un pilastro e dovevo farcela da solo.

Da casa da Nekrassowka arrivarono presto cattive notizie. Mio fratello Oskar, allo scoppio della guerra, si trovava nell'Armata Rossa. Il suo reggimento si trovava sul fronte occidentale in Ucraina.

Come tutti i membri dell’esercito di nazionalità tedesca era stato congedato poco dopo l’inizio della guerra e mandato in un campo di lavoro ad Arcangelo.

Nell’estate del ‘43 arrivò la sua ultima lettera ai genitori. Scriveva che stava molto male e che stava morendo di fame. Aveva chiesto qualcosa da mangiare.

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Papà fece un pacco di viveri. Ma all'ufficio postale non l’avevano accettato. Dicevano che i collegamenti a nord erano interrotti a causa dell’assedio di Leningrado da parte dei tedeschi.

Mio padre e mia madre erano disperati perché non potevano aiutare il figlio. Da allora non abbiamo più avuto notizie di mio fratello, neanche dopo la guerra da voci ufficiali.

Mi colpì duramente la notizia della morte di mia madre. Morì il 14 novembre 1943. Due giorni prima aveva assistito alla partenza di Elvira, mia sorella, nella Trudarmee. Anche lei era stata mandata in un campo a Karaganda e doveva lavorare come me in una miniera di carbone.

Il lavoro nella miniera, come già detto prima, soprattutto nei primi giorni era molto difficile per noi. Dovevo lavorare nell’ampliamento del pozzo.

Le volte e le pareti delle gallerie e dei pozzi sono state puntellate con travi di legno. Spesso abbiamo dovuto riparare o sostituire le travi che era anche una cosa pericolosa.

Una volta avvenne un crollo direttamente nelle nostre vicinanze. Fortunatamente sono riuscito a salvare due colleghi sepolti che erano feriti.

Nel giugno del ’45 in una miniera vicina c’è stata un’esplosione. 66 colleghi sono morti. E nella miniera dove lavoravo si era verificato un incendio nel mese di aprile del ‘48. Anche lì sono morti molti minatori ed i prigionieri di guerra.

Io sono stato fortunato. Dieci giorni prima avevo avuto un incidente. Ero capitato in mezzo a due carrelli e venni schiacciato. L’incendio scoppiò durante il turno di notte. Per il turno successivo avrei dovuto cominciare di nuovo a lavorare. Chissà forse avrebbe toccato anche a me.

Dal 1943 arrivavano a Karaganda sempre più prigionieri di guerra: tedeschi, rumeni, ungheresi, giapponesi. Anche loro dovevano lavorare nella miniera.

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Anche se era vietato o almeno non ben visto, parlavamo con i prigionieri tedeschi. Eravamo colleghi e avevamo un destino simile e questo per noi valeva di più. Noi gente comune non volevamo la guerra ed siamo stati costretti a fare cose che erano al di là della nostra decisione.

Quando la guerra era finita anche noi soldati dell’esercito di lavoro avevamo creduto di poter tornare dalle nostre famiglie o addirittura nei nostri insediamenti, dove eravamo prima della deportazione del ‘41.

Invece dovevamo restare e per noi tedeschi di Russia iniziò il tempo della “kommandantur”. Dovevamo lavorare nella miniera e non potevamo lasciare Karaganda.

Nonostante a questa nuova discriminazione la vita cambiò pian piano in meglio. Da quel momento ricevemmo uno salario, potevamo saziarci e circolare liberamente nella città.

Al giorno d'oggi tutto questo sembrerà poco ma all’epoca, dopo gli anni bui della guerra, era qualcosa che ci dava nuovi impulsi 1.

continua ......

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